giovedì 17 novembre 2011

Political Blues del World Saxophone Qartet


Pubblicato venerdì 30 marzo 2007

Erano parecchi anni che non ascoltavo più un disco nuovo del World Saxophone Quartet, praticamente da quando nel 1989 Julius Hemphill abbandonò il gruppo, ritenendo, forse, quell'esperienza ormai esaurita.
Da allora il gruppo ha subito varie trasformazioni e modificato il progetto musicale, unendo al collettivo dei sassofoni altri elementi già a partire dal primo album post-Hemphill Metamorphosis (Elektra-Nonesuch 1990), nel quale troviamo un trio di percussionisti africani ed un bassista (quest'ultimo solo in alcuni brani).
Gli albums pubblicati successivamente sono stati numerosi, almeno una decina, ma da allora non ho seguito più l'evoluzione del gruppo.
Solo recentemente ho avuto modo di ascoltare, casualmente, la loro ultima fatica Political Blues (Justine Time 2006) uscito l'estate scorsa e ne sono rimasto colpito molto favorevolmente per il notevole impatto emotivo, per la carica dirompente, per la fresca modernità musicale, senza eccessi funky.
Vi è poi il discorso politico, che può essere condivisibile o meno, ma che resta significativo. In linea di principio sono contrario al frammischiamento fra musica e politica, soprattutto in Italia, dove a farla da padrone è una sola parte politica.
Negli USA però il discorso è diverso, esiste una maggiore varietà di opinioni e soprattutto chi la pensa in modo diverso dal "politically correct" non viene automaticamente ghettizzato.
Inoltre le incisioni con fini politici di successo, come quella in esame, sono suffragate da una eccellente qualità artistica: penso a We Insist! Freedom Now di Max Roach, ad Attica Blues di Archie Shepp, a Not in Our Name della Charlie Haden's Liberation Orchestra, per citare le più famose.
In questo album il World Saxophone Quartet ( in realtà qui è un trio con David Murray, Oliver Lake e Hamiet Bluiett) utilizza una formazione più estesa, avvalendosi della collaborazione di alcune figure della musica afroamericana come il trombonista Craig Harris, importante elemento dell'avanguardia nera, che ha collaborato con la Liberation Orchestra, con Muhal Richard Abrams, con Lester  Bowie, Henry Theadgill, oltre ad aver militato per anni con Murray, o il bassista Jamaaladen Tacuma, noto soprattutto come membro del Prime Time di Ornette Coleman o ancora James Blood Ulmer chitarrista free, con venature hendrixiane, anch'esso appartenente all'entourage di Davis Murray.
Il primo brano che dà il titolo all'album vede un insolito Murray cantante, che attacca in maniera esplicita l'amministrazione Bush: «now we are stuck with Bush, Cheney e Rice», enumerando tutto ciò che non condivide dell'attuale politica USA, accusata di fare la guerra ai popoli di colore. Tutto ciò in un contesto musicale avvincente, con colori funky e free,senza mai eccedere e con un robusto background afro.
Anche gli altri brani si avvalgono di forme musicali molto moderne, compreso il rap, e sono tutti godibili. Il brano finale Spy on Me Blues di Oliver Lake, scritto subito dopo l'uragano Katrina, è un accorato appello di richieta di aiuto per New Orleans.
Un album tutto da ascoltare, più di una volta, e che consiglio vivamente a chi ama il jazz, in tutte le sue forme espressive.

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